Ken Damy, l’enfant terrible delle arti visive (per sua stessa definizione), compie 53 d’anni d’attività, e festeggia il Ken Damy Studio con una mostra che celebra i punti salienti di un percorso umano e professionale unico nel suo genere, magistralmente in equilibrio tra grafica e fotografia, avanguardistico rispetto ai tempi in cui le opere videro la luce e saldamente intriso di quel legame con la sua città che lui non mancò mai di ibridare e continuare con una vocazione innata alla sperimentazione.
Brescia, 1966. Dopo tre anni fondamentali passati a formarsi nello storico grafico di Luciano Salodini, Ken Damy (al secolo Giuseppe Damiani) fonda al civico 65 di via Moretto quello che sarebbe stato uno dei punti di riferimento bresciani per la grafica e la fotografia. “Ero una spugna, assorbivo tutto quello che osservavo o che mi veniva insegnato -ricorda. -La mia storia è in realtà la storia di molte menti artistiche di quegli anni. C’era l’Optical Art, nasceva l’Arte Povera, erano gli anni del Living Theatre, di pellicole cult come Zabriskie Point e BlowUp di Antonioni.
Molti giovani artisti ne furono influenzati e fu un bene: senza quella rivolta culturale oggi saremmo rimasti ai quadri di Virgilio Guidi o del vecchio Borgoni” procura Ken.
Anni di fermento artistico e innovazione certo, ma anche anni difficili come testimonia “Ero Triste”, l’opera più rabbiosa e commovente della mostra, che vide la luce la notte del 30 settembre 1981. Franco P., amico che Ken aveva cercato di coinvolgere in alcuni progetti tra cui la realizzazione di un volume fotografico nel tentativo (vano) di sottrarlo alla piaga dell’eroina, muore. Overdose. Ken non dorme, esorcizza la rabbia stampando nella notte 300 manifesti e grida il suo dolore muto affidandolo alla superficie di altrettanti spazi pubblicitari della città.
Da lì l’esposizione si dipana in un percorso dal 1965 ad oggi, attraverso 10 gruppi di opere e installazioni che sono un mix di grafica e profonda conoscenza del mezzo fotografico. L’allestimento non segue un ordine cronologico, ma sfuma gradualmente dal colore al bianco e nero, fino al bianco totale. Le composizioni di ritagli di carta intrecciati testimoniano gli anni nello studio Salosini, fogli di carta strappati e ricomposti in modo completare danno vita a paesaggi; mentre la composizione parietale di linee bianche e nere verticali anticipa (e di molto) l’introduzione del codice a barre utilizzato per la prima volta negli Usa nel 1974.
Bianca Martinelli
Un anno importante, mi licenzio a malincuore dallo studio Salodini. Avevo pensato si restare fino ai 21 anni, la maggior età di allora. Da un anno e mezzo avevo a mia volta un assistente, il Rome, più giovane di me di due anni, sempre del villaggio Sereno.
L’arrivo di un ragioniere che avrebbe dovuto mettere ordine nei conti e di un Dottore addetto alle pubbliche relazioni, sempre presenti – nel frattempo ci eravamo spostati in Viale Stazione – non mi lasciava più spazio personale.
E so io, non dio, di quanto spazio avessi bisogno.
Il braccio destro di Luciano ero io da tre anni e non due ignoti commercialisti, anche se uno era figlio di un bravo artista , noto in città.
Mi licenzio ai primi di luglio in modo da gestirmi un vero viaggio, lungo un mese e mezzo con l’amico Mao.
Con Jep ero stato a Parigi l’anno precedente, ma solo quindici giorni, per colpa del catalogo delle bambole Migliorati in ritardo.
Tre anni esatti di lavoro garantivano una piccola liquidazione anche a noi apprendisti.
A settembre avrei aperto con molta incoscienza il mio studio. Lavoravo già molto in proprio: di sera e di notte.
I miei primi clienti erano dancing e balere non ancora diventate discoteche, e non mi andava di tradire con sotterfugi la fiducia riposta da Luciano.
Sotterfugi per modo di dire visto che gli annunci li firmavo spudoratamente Ken Damy, rigorosamente in Helvetica minuscolo che il Rome mi ha criticato fino al giorno della sua prematura dipartita.
Ma il lavoro lo seguivo in studio rubando il tempo ai clienti officiali, “non era cosa né buona né giusta”, e da un po’ non mi confessavo il venerdì sera: di magro.
Ken Damy
Opera fotografica, nel senso più autentico del termine che significa pittura con la luce, è la serie off camera prodotta con la fotocopiatrice. Per farlo Ken ha buttato la luce all’interno della fotocopiatrice che all’epoca, diversamente da quelle odierne che leggono i colori in un solo passaggio, registrava la presenza di oggetti da riprodurre in 3 passaggi: magenta, ciano e giallo. Il fascio di luce, per natura non opaco sfuggiva alla logica della macchina. E poi i dripping di chimici e sali d’argento su materiale fotosensibile: i bianchi sono elementi per il fissaggio fotografico, gli scuri liquidi per lo sviluppo. Infine, le sinopie bianche di sagome astratte su fondo scuro rimandano al periodo passato a Urbino, quando imprimeva oggetti ma anche i corpi dei suoi studenti a contatto con carta fotosensibile.
Bianca Martinelli
Festeggio il mio settantesimo compleanno con una grande mostra, nello spazio contemporanea e, al piano sopra, nella Visual Art.
L’11 novembre 2019: lo so è lunedì, non proprio un giorno adatto ad una inaugurazione.
Before photography, ma non solo.
Senza testi critici, senza curatori, con alcuni amici di cui ho assoluto bisogno.
Ken Damy